Dr.ssa Vera Damuzzo, Scuola di Specializzazione in Farmacia Ospedaliera, Dipartimento di Scienze del Farmaco, Università degli Studi di Padova, Padova

Dr. Riccardo Bertin, Società Italiana di Farmacia Clinica e Terapia, SIFaCT, Milano

Dr. Daniele Mengato, Ospedale Centrale di Bolzano, Azienda Sanitaria dell’Alto Adige, Bolzano

Dr. Marco Chiumente, Società Italiana di Farmacia Clinica e Terapia, SIFaCT, Milano

Prof.ssa Susanna Mandruzzato, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Oncologiche e Gastroenterologiche, Università degli Studi di Padova, Padova

Negli ultimi decenni, la conoscenza del sistema immunitario è diventata un tema di grande attualità in campo farmacologico grazie all’introduzione di un numero crescente di farmaci che sfruttano i meccanismi propri dell’immunità sia per contrastarne l’azione lesiva nei confronti dei nostri stessi tessuti (autoimmunità), sia per sfruttare l’immunità antitumorale in senso terapeutico1,2.

Il sistema immunitario è però sicuramente più conosciuto per la sua capacità di proteggerci da infezioni virali o batteriche grazie all’azione concertata di un esercito di cellule specializzate e mediatori solubili, rilasciati sia nel sito di infezione che in circolo, in grado di determinare una risposta ad alta specificità per ogni tipo di infezione2.

Di conseguenza, durante l’epidemia di SARS-CoV-2 è prioritario capire con quali meccanismi il sistema immunitario reagisce in maniera specifica contro questa infezione.  Queste nozioni sono la condizione essenziale per effettuare studi epidemiologici su larga scala in merito alla diffusione del virus, per lo sviluppo di un eventuale vaccino, e, in tempi più rapidi, per capire se sia possibile sfruttare i meccanismi propri dell’immunità per curare la malattia attraverso farmaci (es: tocilizumab) o terapie trasfusionali (es: plasma exchange)3

Con questo articolo vogliamo fare il punto sulle conoscenze attuali del rapporto tra SARS-CoV-2 e sistema immunitario e approfondire quali scenari queste conoscenze aprono per la gestione terapeutica della pandemia.

La risposta immunitaria nelle infezioni virali

In linea generale, quando una cellula viene infettata da un virus questa è in grado di “accorgersi” che al suo interno sta avvenendo la replicazione virale grazie a diversi recettori dell’immunità innata che agiscono come sensori dell’infezione e attivano una cascata di segnali intracellulari finalizzati a lanciare due programmi d’azione antivirale2. Il primo porta alla produzione di interferoni di tipo I e tipo III che agiscono localmente impedendo la diffusione dell’infezione e creando uno stato antivirale delle cellule infette. Il secondo programma messo in atto prevede l’attivazione di una serie di meccanismi che permettono così l’attivazione di risposte dell’immunità adattativa, ovvero citotossiche e anticorpali, dotate di memoria immunologica, volte a uccidere altre cellule infettate e impedire la diffusione sistemica del virus. Questi tipi di risposta sono finemente concertate tra di loro e si sviluppano nel tempo in modo tale che l’azione dell’immunità innata da un lato fornisce un argine iniziale alla diffusione dell’infezione e al contempo favorisce lo sviluppo della successiva risposta adattativa, dotata di più ampia specificità e di maggiore potenza.

Covid-19 e interferoni

Un recente studio ha permesso di capire che la risposta mediata dagli interferoni (uno dei primi programmi antivirali), era maggiormente soppressa nei pazienti Covid-19 più gravi rispetto ai casi con sintomatologia più lieve4. Questo risultato è stato validato anche misurando i livelli circolanti di interferone nel plasma dei pazienti e si è compreso che, nonostante i livelli di interferone fossero ridotti, vi era comunque una significativa risposta pro-infiammatoria mediata da altri fattori solubili quali chemochine, IL-6, IL1β. Questi risultati potrebbero avvalorare l’uso nelle fasi precoci della malattia di terapie a base di interferone, utilizzato quindi per “ripolarizzare” in maniera corretta la risposta immunitaria, ma ulteriori studi sono necessari per meglio caratterizzare il ruolo di interferone nella risposta al Covid-19 e la possibilità di utilizzarlo in clinica5.

Se dunque nella maggior parte degli individui la risposta immunitaria si attiva, porta ad una risoluzione dell’infezione e poi si spegne, nei pazienti più gravi si assiste ad una risposta esagerata e non funzionale con iperproduzione di citochine e, in particolare di IL-6, i cui livelli aumentano con il progredire della malattia e sono più elevati nei pazienti con prognosi infausta6,7. L’aumentata produzione di queste molecole causa una sindrome da rilascio citochinico caratterizzata da grave stato infiammatorio a livello polmonare e, nei casi più gravi, da coinvolgimento sistemico che può sfociare nello shock settico8. La sindrome da rilascio citochinico era finora conosciuta soprattutto come una reazione avversa grave correlata all’uso di alcuni approcci immunoterapici come i CAR-T o anticorpi bispecifici (es. blinatumumab), ed è proprio dall’esperienza maturata in questo campo che deriva il razionale di utilizzare anticorpi per bloccare la tempesta citochinica nei pazienti Covid-19 quali tocilizumab, sarilumab, anakinra3,9.

Covid-19 e immunità adattativa: i linfociti T

Riscuote invece un interesse sicuramente maggiore il secondo programma antivirale, e in particolare la possibilità di produrre risposte mediate da linfociti T e B, caratterizzate da maggiore specificità e potenza, oltre alla possibilità di sviluppare una memoria immunologica che ci protegga da una successiva re-infezione2.

I linfociti T CD4+ aiutano i linfociti B a produrre anticorpi e, in linea più generale, hanno la funzione di orchestrare una risposta immunitaria efficace, controllata e coordinata nel tempo. I linfociti T CD8+ hanno invece azione citotossica diretta sulle cellule infettate.

Nelle ultime settimane sono state pubblicate le prime evidenze sull’esistenza di linfociti T attivi e specifici per SARS-CoV-2, tuttavia il numero e le funzioni effettrici di questi linfociti diminuiscono con il progredire della malattia10, e diverse evidenze mostrano la presenza di una marcata linfopenia in pazienti Covid-19 con malattia moderata o severa10. I pazienti con sintomi lievi, invece, hanno una conta linfocitaria normale o leggermente sopra la media. I primi studi di caratterizzazione fenotipica di queste cellule indicano che nei casi più gravi sono presenti linfociti T con un fenotipo “esausto”, perché iper-attivati, e quindi non funzionanti, mente nei pazienti che guariscono si assiste non solo ad un recupero del numero di linfociti ma anche delle loro funzioni effettrici. La linfopenia nei pazienti Covid-19 rimane ancora largamente inesplorata, ma suggerisce un meccanismo di immuno-evasione da parte del virus, anche se i meccanismi che guidano questo fenomeno e contribuiscono a un’immunosoppressione funzionale dei linfociti T sono attualmente sconosciuti.

Covid-19 e immunità adattativa: i linfociti B e la produzione di anticorpi

Ha destato ancora maggiore interesse la ricerca di anticorpi specifici per SARS-CoV-2 prodotti dalla risposta mediata dai linfociti B.

Esistono diverse classi di anticorpi (isotipi) che si differenziano per la diversa distribuzione all’interno del nostro corpo e a cui si associano diverse caratteristiche e funzioni effettrici2. Le immunoglobuline prodotte precocemente dopo l’infezione sono le IgM che sono contraddistinte da bassa affinità per il virus, localizzazione prevalente nel torrente circolatorio e capacità di attivare il complemento. Con il passare del tempo, le plasmacellule cominciano a produrre anche altre classi di immunoglobuline come le IgG che sono caratterizzate da localizzazione sia plasmatica che tissutale, e generalmente da una maggiore affinità di legame per il virus, consentendo quindi una migliore capacità di neutralizzazione. La possibilità che vengano prodotte immunoglobuline specifiche in grado di riconoscere la proteina spike e il nucleocapside di SARS-CoV-2 è stato già dimostrato in questi mesi da diversi studi11-18.

Il primo studio, condotto in 265 pazienti sintomatici e con tampone positivo, dimostra che entrambe le classi di immunoglobuline IgM e IgG vengono prodotte in questi pazienti entro 20 giorni dall’inizio della sintomatologia11. La produzione degli anticorpi è veloce e i livelli circolanti si stabilizzano già sei giorni dopo lo sviluppo dei sintomi mantenendosi costanti durante i 30 giorni di osservazione programmati dallo studio.

Durante l’epidemia di MERS-CoV, uno dei criteri diagnostici elaborati dall’OMS per individuare i casi positivi è stato quello ricercare nei pazienti la sieroconversione e la presenza di anticorpi neutralizzanti12. La sieroconversione era definita come un aumento di almeno quattro volte del titolo delle immunoglobuline specifiche per il virus riscontrata in almeno due prelievi seriali. Tuttavia, lo studio di Long et al. dimostra che questo criterio diagnostico potrebbe fallire nel caso di SARS-CoV-2 qualora il primo prelievo non fosse effettuato in maniera tempestiva e ricadesse invece nella fase di plateau del titolo anticorpale che insorge precocemente; di conseguenza, gli autori raccomandano di testare il prima possibile i pazienti sospetti.

Lo studio ha valutato anche 52 casi sospetti di infezione con tampone negativo e 164 contatti stretti delle persone ammalate, di cui 148 presentavano il tampone negativo11. Un certo numero di pazienti con tampone negativo (3/52 sintomatici e 7/148 contatti stretti) producevano entrambe le classi di anticorpi per SARS-CoV-2. Non è chiaro se la presenza di questi anticorpi sia specifica per SARS-CoV-2 o sia da ascrivere ad una cross-reazione degli anticorpi rilevati per altri coronavirus diversi da SARS-CoV-2, o ancora sia un falso positivo dovuto alla tecnica di rilevazione anticorpale.

Uno studio simile, condotto in Francia, ha dimostrato dei tassi inferiori di sieroconversione nei pazienti ospedalizzati con tampone positivo (64%) ma gli autori dichiarano un possibile bias dovuto al fatto che i prelievi potrebbero essere stati effettuati in tempi troppo precoci e quindi prima di una possibile sieroconversione13. Quando l’indagine è stata ripetuta su 209 pazienti pauci-sintomatici e 1200 controlli sani (donatori di sangue) la positività per gli anticorpi anti- SARS-CoV-2 è stata del 29% nella coorte dei malati con sintomi lievi e 3% nei controlli sani. Questo studio è interessante poiché pone a confronto 4 tecniche diverse di determinazione del titolo anticorpale dimostrando che solo le più sensibili sono in grado di misurare il titolo anticorpale nei pazienti con sintomi lievi, dove la sieroconversione potrebbe non essere ottimale in tutti i pazienti. Al momento un aspetto critico è infatti rappresentato dall’affidabilità dei molteplici test sierologici disponibili non ancora sufficientemente validati e confrontati tra di loro, che porta alla produzione di risultati talvolta contradditori in diversi studi. In futuro sarà quindi indispensabile arrivare a degli standard condivisi nella diagnostica sierologica al SARS-CoV2.

Anticorpi specifici e anticorpi neutralizzanti

Questi studi si sono focalizzati sull’individuazione di anticorpi-specifici contro SARS-CoV-2, anticorpi quindi in grado di legarsi ad un antigene di superficie del virus. Tuttavia, rimane aperta la discussione circa la possibilità che questi anticorpi abbiano capacità neutralizzante. L’azione neutralizzante dell’anticorpo si esplica nella sua capacità di legare delle regioni esposte del virus impedendone il legame con la superficie delle cellule, la penetrazione nel citoplasma e/o l’uscita dei nuovi virioni prodotti all’interno della cellula ospite. Inoltre, la formazione di complessi tra virioni e anticorpi circolanti favorisce la clearance di questi complessi poiché stimola la fagocitosi da parte di cellule del sistema immunitario innato.

Vi sono già alcuni studi che hanno valutato la capacità neutralizzante di anticorpi anti- SARS-CoV-2 isolati da pazienti Covid-1913,14,15,16,17. Gli studi hanno dimostrato in vitro la capacità neutralizzante del plasma dei pazienti infetti, e hanno poi dimostrato che l’attività neutralizzante era correlata con il livello circolante di anticorpi specifici (IgG) contro SARS-CoV-2. Uno dei due studi ha evidenziato anche che i pazienti più anziani avevano titoli anticorpali maggiori che correlavano con una maggiore attività neutralizzante, un aumento della proteina C-reattiva (un marker precoce di infiammazione) e una diminuzione dei leucociti al momento del ricovero14. Tuttavia, lo studio non effettua alcuna correlazione tra il titolo anticorpale e l’andamento clinico della malattia nella coorte di pazienti anziani. Infine, questo studio osserva che il 30% dei pazienti presentava bassi titoli di anticorpi neutralizzati ed è guarito spontaneamente.

La correlazione tra aumento dei livelli anticorpali e decorso della malattia è invece un punto importante ma per cui i risultati non sono ancora univoci. Alcuni studi infatti mostrano che alti titoli anticorpali verso SARS-CoV-2 sono correlati ad un’elevata capacità di neutralizzazione del virus e sono inversamente correlati al carico virale nei pazienti16,17, mentre altri studi hanno osservato che i livelli anticorpali aumentano con il progredire dei sintomi e che i pazienti ricoverati in terapia intensiva presentano aumentati titoli di anticorpi specifici per il nucleocapside di SARS-CoV-216,18. Inoltre, nei pazienti che non necessitano di cure intensive, ad un aumento delle IgG specifiche per la spike protein corrisponde una diminuzione della proteina C-reattiva. La presenza quindi di anticorpi specifici e neutralizzanti sembra quindi non essere sempre sufficiente a bloccare il decorso di una malattia severa e suggerisce che anche altri meccanismi immunologici possano essere presenti per portare alla risoluzione della malattia.

Prospettive future

I risultati finora ottenuti da un lato indicano che la sieroconversione e la produzione di anticorpi neutralizzanti è possibile, ma non nel 100% dei pazienti. C’è quindi la necessità di ulteriori studi in coorti più numerose per capire quali siano le percentuali attese di immunizzazione in seguito a somministrazione dei vaccini che entreranno a breve in sperimentazione clinica. Grzelak et al. sottolineano anche la necessità di misurare il titolo anticorpale nei donatori di plasma prima della donazione.

La presenza di guarigioni spontanee in pazienti che non si sono sieroconvertiti, mantiene aperta la possibilità che vi siano anche altri meccanismi che permettono di eliminare l’infezione e a questo proposito va ricordata la risposta cellulo-mediata dei linfociti T, che normalmente riveste un ruolo importante nell’eliminazione delle cellule infettate dal virus, ma che attualmente è ancora poco definita.

Un altro aspetto chiave della risposta immunitaria verso SARS-CoV-2 che rimane ancora da definire è la memoria immunologica: sia i linfociti T che i B sono capaci di sviluppare la memoria immunitaria che è alla base dello sviluppo di un vaccino efficace, ma non sono ancora nota la natura e l’entità di questa memoria nei confronti di SARS-CoV-2. Per ora abbiamo a disposizione solo le conoscenze sviluppate durante l’epidemia di SARS-CoV-1, che indicano lo sviluppo di memoria immunitaria sia da parte dei linfociti T che dei linfociti B19; tuttavia, il tasso di sieroconversione della popolazione tende a rimanere elevato solo nei primi due anni per poi dimezzarsi nel corso del terzo anno e permanere solo in una percentuale minima della popolazione a 6 anni dall’infezione.

Come riflessione finale riportiamo quanto pubblicato in una recente review di Nature Review Immunology, nella quale gli autori mettono in guardia sulla possibilità di applicare con facilità l’equazione “presenza di anticorpi = possibilità di vaccino”. Infatti, la produzione di anticorpi a bassa affinità o in scarsa quantità può portare ad un effetto paradosso che promuove la crescita del virus invece che impedirla. Questo fenomeno è chiamato antibody- dependent enhancement ed è stato osservato in modelli animali di SARS20.

In conclusione, ora che conosciamo l’esistenza di una risposta anticorpale diretta contro SARS-CoV-2, è necessario caratterizzare meglio quali siano i meccanismi immunitari che correlano con la remissione della malattia o, al contrario, con il peggioramento delle condizioni cliniche. Queste conoscenze permetteranno di sviluppare terapie razionali e, si auspica, un vaccino sicuro ed efficace o strategie alternative come la produzione in vitro di anticorpi monoclonali neutralizzanti ad alta affinità in analogia a quanto già succede in altri ambiti terapeutici.

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