INCREMENTO DELL’ANTIMICROBICO RESISTENZA: POTENZIALE EFFETTO COLLATERALE DELLA PANDEMIA DA SARS-CoV-2?
A cura di: Anna Bin1
1U.O.C. Assistenza Farmaceutica Territoriale – Azienda ULSS 3 Serenissima, Venezia
Abstract
La pandemia da COVID-19 (malattia causata dall’infezione da parte del virus da sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus-2, SARS-CoV-2) si è sviluppata in un momento in cui era già presente una grande minaccia per la salute pubblica: l’antimicrobico resistenza (AMR). I fattori responsabili della somministrazione spesso inappropriata di antimicrobici durante l’emergenza hanno reso complessa l’applicazione delle raccomandazioni sull’uso di questi medicinali: il timore di infezioni batteriche, concomitanti o secondarie, la mancanza di terapie mirate di provata efficacia, la difficoltà nella distinzione tra polmonite batterica e da COVID-19, il sovraccarico di lavoro nei reparti ospedalieri/strutture territoriali e negli ambulatori dei Medici di Medicina Generale.
Nonostante gli studi ad oggi disponibili non permettano di trarre conclusioni definitive, appaiono più che giustificate le preoccupazioni dei ricercatori che considerano l’utilizzo inappropriato di antimicrobici durante la pandemia un serio fattore di rischio per l’aggravarsi della minaccia dell’AMR, sia nel breve che nel lungo periodo. Ecco, dunque, un altro possibile effetto collaterale della pandemia, sul quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Agenzia Italiana del Farmaco continuano a richiamare l’attenzione e a promuovere la definizione/implementazione a livello nazionale, regionale e locale di raccomandazioni chiare sull’uso degli antimicrobici.
Obiettivo del lavoro è quello di fornire una panoramica sulla gestione della terapia antimicrobica in fase di emergenza pandemica, ponendo l’attenzione sulla necessità di seguire i principi di stewardship antimicrobica anche durante situazioni difficili e critiche come quella tuttora in corso, al fine di preservare molecole preziose e prevenire l’incremento di mortalità e morbidità nel lungo periodo.
Last update: 24/08/2022
Introduzione
Prima ancora della diffusione dell’infezione SARS-CoV-2, a livello mondiale si stava affrontando una pandemia silente, l’antimicrobico resistenza (AMR, antimicrobial resistance). Quest’ultima rappresenta una minaccia emergente di portata tale da configurarsi come uno dei principali problemi di sanità pubblica globale, con un forte impatto sia clinico (aumento della morbilità, letalità, durata della malattia e delle degenze ospedaliere, possibilità di complicanze/invalidità) che economico, per il costo aggiuntivo richiesto dall’impiego di farmaci e procedure più onerose. L’Italia è tra i paesi europei con le più alte percentuali di resistenza alle principali classi di antimicrobici utilizzate, soprattutto in ambito ospedaliero, tanto da stimare, per il 2030, un incremento nella AMR del 19%. Un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, a livello globale ed entro il 2050, i morti per questa causa saranno ben 10 milioni ogni anno, con l’AMR che diventerebbe la prima causa di morte al mondo.[1-5]
Un microrganismo, sia esso un batterio, un fungo o un virus, diventa resistente ai trattamenti farmacologici quando sopravvive anche in presenza di farmaci antinfettivi in concentrazioni di norma sufficienti per eradicarlo o diminuirne l’attività. Questa capacità emerge in modo naturale, per adattamento evolutivo, in un ambiente ricco di antimicrobici, portando allo sviluppo di ceppi in grado di dominare e diffondersi a discapito di altri. Ciò ha portato all’introduzione del termine “superbugs“, ovvero di patogeni multiresistenti ad antibiotici, antifungini, antimalarici, antielmintici, responsabili di infezioni spesso letali verso le quali si è completamente disarmati.[6]
L’AMR è un fenomeno complesso da analizzare, generato necessariamente da differenti concause: l’aumento dell’utilizzo improprio degli antimicrobici sia in medicina umana che veterinaria con la conseguente pressione selettiva di ceppi resistenti, l’impiego di antibiotici in zootecnia e agricoltura, la diffusione di infezioni ospedaliere causate da microrganismi Multi-Drug Resistance (MDR), nonché una maggiore diffusione di tali patogeni con l’aumento di viaggi internazionali e di flussi migratori. L’OMS, a tal proposito, ha lanciato una propria politica denominata “One Health” con lo scopo di sensibilizzare i governi al problema dell’AMR intesa come approccio “olistico”: dall’uso scorretto degli antimicrobici nell’uomo, fino al problema del trattamento delle zoonosi. [4-6]
Analisi delle evidenze
La pandemia causata da SARS-CoV-2 si intreccia con la problematica dell’AMR: di fronte a una malattia nuova, di cui si conosce ancora relativamente poco, sono stati messi in atto alcuni comportamenti che presumibilmente hanno impattato in modo importante sulla diffusione dell’AMR, sia in ambito ospedaliero che territoriale.[7-9] Infatti, pur essendo COVID-19 un’infezione virale, la pandemia ha alimentato fortemente l’utilizzo degli antimicrobici sia su sovrainfezioni legate a COVID-19 che, in presenza molto spesso di evidenze contrastanti, su COVID-19 stessa.[8]
In ospedale, dove si trovavano i pazienti clinicamente più gravi, la mancanza di adeguate linee guida gestionali (quali l’utilizzo di procalcitonina o proteina-C reattiva per stabilire l’opportunità di iniziare una terapia antibiotica), le caratteristiche della malattia in termini di sintomatologia e parametri laboratoristici, spesso sovrapponibili a processi tipicamente batterici, la complessità dei quadri clinici e radiologici che ha reso difficoltosa l’identificazione di una sovrainfezione batterica polmonare, le forme gravi di COVID-19 che facevano ipotizzare un’infezione batterica concomitante o secondaria, hanno portato molti clinici a ricorrere frequentemente a una terapia antimicrobica empirica ad ampio spettro.[9-16] I dati disponibili mostrano che la mortalità dei pazienti aumenta significativamente se a COVID-19 si sovrappongono altre infezioni, in particolar modo quando il paziente viene trasferito in terapia intensiva, sia per effetto della ventilazione meccanica sia perchè l’alterazione dei meccanismi immunitari rende i polmoni più suscettibili all’insorgenza di infezioni.[15] Tuttavia, una metanalisi condotta su oltre 3.000 pazienti ospedalizzati per COVID-19 nella prima metà del 2020 ha dimostrato che il 70% aveva ricevuto almeno un antibiotico, nella maggior parte dei casi ad ampio spettro d’azione, nonostante solo il 7% circa (5,9% di area non critica, 8,1% di area critica) presentasse una diagnosi di infezione batterica (co-infezione o infezione secondaria).[11]
L’elevatissimo numero di ricoveri quotidiani nei reparti di degenza e soprattutto nelle terapie intensive, ha notevolmente aumentato il rischio di infezioni nosocomiali (e la loro trasmissione) con la conseguente necessità di impostare un trattamento antibiotico adeguato. Tale sovraccarico di lavoro ha inoltre causato l’interruzione dei programmi di stewardship antimicrobica (AMS, antimicrobial stewardship) e dei protocolli di screening per microrganismi MDR, che normalmente richiedono misure di isolamento specifico.[11-16] Relativamente a patologie non legate a COVID-19, quali tubercolosi, HIV e malattie infettive trasmissibili, i disservizi assistenziali hanno causato interruzioni o ritardi nella somministrazione dei trattamenti, con possibile selezione di ceppi batterici resistenti ai farmaci.[17,18]
A livello di medicina territoriale, si è assistito a un eccessivo ricorso alla terapia antimicrobica nella gestione dei pazienti con polmonite da SARS-CoV-2, prescritta da parte dei Medici di Medicina Generale, in particolar modo all’inizio della pandemia. Ne è un esempio l’indiscriminato utilizzo di azitromicina nel corso del 2020, i cui benefici, in un secondo momento, sono stati ampliamente smentiti[19,20], permettendo di registrare una tendenza in riduzione dei consumi nel primo semestre del 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020.[21]
La combinazione tra paura dell’infezione da COVID-19 e mancanza di conoscenze adeguate ha avuto un impatto diretto sull’accesso agli antimicrobici da banco (OTC, over-the-counter), con un tasso di automedicazione pari al 33% prima dell’accesso ospedaliero. Un’analisi di coorte retrospettiva condotta su 191 pazienti ricoverati in due ospedali di Wuhan, ha riscontrato come, al momento del ricovero, il 95% era trattato con antibiotici e il 21% con farmaci antivirali. La disinformazione è spesso responsabile anche del misuso di antimicrobici: dosi dimenticate, arresto precoce del trattamento, non aderenza alla terapia.[7,8,19,22]
In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità ha promosso uno studio con l’obiettivo di analizzare i dati di resistenza agli antibiotici del primo semestre 2020, comprensivo dei due mesi precedenti all’emergenza e dei primi mesi della pandemia, per un confronto con i dati relativi al semestre dell’anno precedente. I risultati suggeriscono che l’impatto della pandemia da COVID-19 sui tassi di resistenza agli antimicrobici sia stato marginale, almeno nei mesi iniziali; tali dati, tuttavia, devono essere valutati considerando i limiti dello studio, dovuti alla partecipazione di sole 13 Regioni/Province Autonome e al periodo ridotto preso in analisi, ristretto e precoce per giungere a conclusioni oggettive.[8]
I dati pubblicati dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) relativi al primo semestre 2020 nell’ambito dell’assistenza convenzionata mostrano un crollo del consumo di antibiotici rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con una riduzione del 50% a maggio 2020, presumibilmente a causa del minor numero di visite e del minor ricorso all’assistenza sanitaria per infezioni lievi e autolimitanti; il trend in diminuzione, che si è mantenuto anche nel primo semestre del 2021, può essere correlato anche a una più bassa diffusione di infezioni del tratto respiratorio non associate a COVID-19, come effetto delle norme di distanziamento sociale e di igiene.[19,21]
Cosa si sta facendo e cosa si può fare per combattere l’antimicrobico resistenza
Negli ultimi decenni, gli organismi internazionali tra i quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’Unione Europea (UE) e il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (European Centre for Disease Prevention and Control, ECDC) hanno prodotto raccomandazioni e proposto strategie e azioni coordinate atte a contenere il fenomeno, riconoscendo l’AMR come una priorità in un ambito sanitario [6]. In Italia, le indicazioni dell’OMS sono state recepite nel Piano Nazionale di Contrasto all’Antimicrobico-Resistenza (PNCAR) 2017-2020, con obiettivi di sorveglianza, prevenzione, comunicazione, formazione e ricerca, volti a contrastare il preoccupante fenomeno. In linea con i piani d’azione dell’OMS e dell’UE, il PNCAR riconosce la necessità di un approccio trasversale per superare l’AMR, a maggior ragione nel momento attuale che vede intrecciarsi un’emergenza in corso con una nuova. Secondo la visione olistica “One Health” i problemi sanitari devono essere affrontati in modo integrato in tutti i loro aspetti vedendo coinvolti microbiologi, farmacisti, medici del territorio, tutti i medici ospedalieri (non solo infettivologi), ma anche veterinari, sociologi economisti, ambientalisti. La sorveglianza dell’AMR è una delle aree di attività del PNCAR e rappresenta un punto chiave per verificare l’impatto delle strategie adottate e il raggiungimento di alcuni degli indicatori del piano stesso. Oggi questi obiettivi sono stati raggiunti solo in parte ed è quindi necessario aumentare gli investimenti nei programmi di formazione e di AMS andando a colmare le lacune ancora esistenti. In particolare, nei casi di emergenza/urgenza (es. sepsi in terapia intensiva) per i quali è necessario ricorrere in maniera tempestiva a una terapia antibiotica, non sempre si dispone nell’immediato della consulenza infettivologica. Anche le schede AIFA relative ai nuovi antibiotici rappresentano un oggettivo impedimento all’utilizzo in emergenza di questi medicinali potenzialmente salvavita: tali schede devono essere compilate in accordo con le indicazioni registrative che ne definiscono ambiti di utilizzo e posologia, costringendo l’infettivologo a un utilizzo off-label quando prescrive empiricamente o su base eziologica documentata/presunta. Da ultimo, l’uso empirico di queste molecole da parte di altri specialisti, oltre all’infettivologo, in pazienti critici con fattori di rischio, setting epidemiologico, colonizzazione, non è al momento previsto nè consentito.[1,4,6,23]
Al fine di contrastare l’inappropriato uso di antimicrobici, in un recente documento sulla gestione clinica di COVID-19, l’OMS ha controindicato il ricorso alla terapia antibiotica nei pazienti con quadri clinici lievi e/o moderati, a meno di riscontrare chiari segni di infezione batterica, sovrapposta o secondaria a malattia da SARS-CoV-2. Nei pazienti più gravi, la terapia antimicrobica empirica viene indicata solo sulla base del giudizio del clinico, con la conoscenza dei fattori di rischio e dell’epidemiologia locale e con rivalutazioni giornaliere per attuare, quando possibile, lo switch da terapia iniettiva a terapia orale o una rapida de-escalation del trattamento, così come previsto dai programmi di AMS.[12-15] In questo contesto emergenziale, AIFA ha attivato un gruppo di lavoro (AIFA-OPERA, Ottimizzazione della Prescrizione Antibiotica), costituito da esperti nazionali in AMR, con il compito di supportare l’Agenzia nel favorire l’uso ottimale degli antimicrobici per perseverarne l’efficacia e ridurre l’insorgenza di resistenze.[24]
Non essendo ancora disponibili strategie terapeutiche ottimali per combattere la malattia, è auspicabile potenziare le attività di AMS, solitamente già integrate all’interno dei sistemi sanitari e in grado di ottimizzare la prescrizione di antimicrobici.[22,25,26] La AMS rappresenta infatti un enorme risorsa, basandosi sul lavoro di team multidisciplinari in stretta collaborazione con i dipartimenti di prevenzione delle malattie infettive.[23]
Nel team compare solitamente anche la figura del Farmacista, ospedaliero e/o dei Servizi Farmaceutici Territoriali, che in questo contesto di emergenza pieno di incertezze, svolge un ruolo chiave nella gestione della pandemia, garantendo la continuità delle cure, monitorando il profilo di sicurezza dei farmaci prescritti, segnalando eventuali effetti collaterali e fornendo informazioni tempestive su linee di indirizzo/raccomandazioni per la gestione del paziente COVID-19.[27] A differenza di altri paesi [28-30] dove le esperienze sono documentate e la figura del Farmacista all’interno del team multidisciplinare si sta consolidando, in Italia il modello del Farmacista di reparto o di dipartimento non è ancora ampiamente diffuso, anche se l’esacerbazione indotta dalla pandemia da SARS-CoV-2 ne ha messo in evidenza il ruolo fondamentale sul controllo dell’appropriatezza prescrittiva, sulla qualità dell’assistenza farmaceutica e sul governo della spesa, in piena collaborazione con le altre Unità Operative e Servizi coinvolti nel processo. Prescrizione appropriata e ottimizzazione nell’uso di antimicrobici secondo i principi di AMS, così come la qualità della diagnosi e delle misure di controllo dell’infezione severa, potrebbero aiutare nel prevenire la diffusione di microrganismi resistenti in fase di pandemia.[12]
Conclusioni
Molti dei comportamenti adottati in fase emergenziale potrebbero aver contribuito ad un incremento dell’AMR, ma al momento le conoscenze scientifiche sull’impatto che la pandemia ha avuto rispetto alla diffusione di batteri MDR sono ancora limitate.[7-10] Le evidenze disponibili, tuttavia, sostengono la necessità di pianificare studi che raccolgano in maniera sistematica i dati clinici, epidemiologici, microbiologici e di AMR relativi alle infezioni batteriche in pazienti COVID-19, di incentivare la ricerca e di sviluppare raccomandazioni chiare per l’uso degli antimicrobici in questo contesto. Un’ulteriore priorità è quella di valutare la possibile correlazione tra il profilo immunologico e l’insorgenza di COVID-19, per poter implementare strategie di trattamento e di stewardship, ma anche formulare criteri precisi per la diagnosi di sovrainfezione batterica nei pazienti COVID-19.[31]
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